15 giugno 2018 – L’Italia è il Paese che recupera più materia prima dopo l’Olanda: il 18,5%, ossia 48,5 milioni di tonnellate di rifiuti che rientrano in circolo. Grazie a questo comportamento virtuoso risparmiamo energia equivalente a 17 milioni di tonnellate di petrolio e dunque evitiamo di immettere in atmosfera 60 milioni di tonnellate di anidride carbonica. Ma tra i rifiuti ci sono tantissime risorse che alimenterebbero l’economia circolare. Perché non le utilizziamo?
L’economia circolare è la grande scommessa per garantirci il futuro. L’ambizione è quella di importare nel nostro modello economico finanziario quello che avviene nell’organismo in natura, cioè che ogni singola sostanza rientra poi in circolo, ma bisogna pensarci prima, scegliendo materie e sostanze che siano adatte al riutilizzo, al circolo, che si dimostra poi essere virtuoso perché allunga la vita di un prodotto e lo allontana dalla discarica. Si potrebbe cominciare, ad esempio, con una matita: lo scarto della tempera non va a finire nel cestino, ma ridiventa matita. Si può cominciare anche dai piccoli gesti, il cibo ad esempio: ogni anno in Italia si gettano 2,2 milioni di tonnellate di cibo, 8,5 miliardi di euro, l’equivalente di un terzo di una finanziaria. Per ridurre gli sprechi, in Francia la legge impone di donare gli scarti, in Portogallo li donano a prescindere. Da noi chi lo fa ha diritto a delle briciole di sgravi fiscali; in Inghilterra e Danimarca li rivendono, e in Olanda gli scarti puoi ritrovarteli nel piatto.
IL CASO DEL RISTORANTE INSTOCK
“Se hai un pomodoro perfetto è facile, non ti devi inventare niente, ma con gli scarti…che ci fai con questi?” – Luca Jeffries, chef del ristorante Instock ad Amsterdam.
Lo chef, fino all’ultimo, non sa quale sarà il menù da presentare ai clienti. Lo prepara di volta in volta in base alla tipologia di scarti che arrivano alla sua cucina da 116 supermercati della città: 2.500 chili alla settimana di alimenti invenduti che vengono trasformati grazie alla sua fantasia in nuove ricette.
“Lavoravamo in un supermercato e vedevamo con i nostri occhi quanto cibo si spreca. Sono prodotti ancora commestibili, magari meno belli di quelli esposti. Così abbiamo pensato di poterci fare qualcosa di meglio, anziché buttarli.” – Freke Van Nimwegen, co-fondatrice del ristorante.
IL CASO DI ORANGE FIBER
Gli scarti della frutta oggi si possono indossare, anni fa sarebbe stato impensabile. Trattati nel modo giusto, diventano morbidi come la seta.
Orange Fiber è l’azienda italiana che ha brevettato, insieme al dipartimento di chimica dei materiali del Politecnico di Milano, tessuti sostenibili dai prodotti agrumicoli, sviluppando un’interessante produzione.
“Dal residuo della spremitura si estrae una cellulosa che si trasforma in fibre: quest’ultime vengono filate e finiscono poi nel telaio, da dove esce il tessuto. Un metro di tessuto si fa con tre chili di bucce d’arancia. Ha conquistato anche Ferragamo, che ci ha firmato una collezione. Quando parli di un tessuto fatto dalle arance, si crea un po’ l’immagine di non lusso e invece il lusso può essere sostenibile, può essere attento all’ambiente. La sciarpa che porto al collo è la dimostrazione che si può fare innovazione in Italia ed è un Paese che ci crede” – Enrica Arena, co-fondatrice di Orange Fiber.
Con le 700mila tonnellate di rifiuti agrumicoli che ogni anno vanno smaltite si potrebbe vestire un continente intero.
IL CASO DI MIT Design Lab
“L’innovazione si chiama anche biodesign: recuperiamo i rifiuti di plastica dagli oceani per farci scarpe da ginnastica. Si usano anche microorganismi e alghe. Si tratta di educare i designer a capire le potenzialità della biologia applicata a questo settore, e i consumatori che magari storcono il naso all’idea di avere addosso dei “batteri” o delle alghe.” – Yihyun Lim, Dirtettire di MIT Design Lab Boston.
LO SCARTO: RIFIUTO, SOTTOPRODOTTO O RISORSA? IL VUOTO NORMATIVO
Lara Maistrello, entomologa di BIOGEST-SITEIA, centro di ricerca interdipartimentale per il miglioramento e la valorizzazione delle risorse biologiche agro-alimentari dell’Università di Modena e Reggio Emilia, è a capo di un progetto per la realizzazione di un formidabile fertilizzante non chimico: si fa allevando migliaia di larve che mangiano i rifiuti e una volta digeriti li disinfettano e li trasformano.
Le larve nascono dalle femmine delle mosche soldato, le quali vivono solo 15 giorni, giusto il tempo di accoppiarsi. Da ogni femmina nascono fino a 500 larve fameliche che divorano i rifiuti organici.
“Ci abbiamo messo un anno per capire a chi chiedere l’autorizzazione, perché c’è il vuoto totale. Noi abbiamo ottenuto un’autorizzazione speciale a scopi di ricerca, per usare la pollina da dare da mangiare, come sottoprodotto e non come rifiuto, perché i rifiuti devono essere gestiti sulla base della normativa rifiuti.” – afferma Laura Maistrello.
Ma se qualcuno volesse fare business con questo, come funziona? Attualmente non si può, c’è un vuoto normativo che in qualche modo riduce le possibilità di un’implementazione in questa direzione.
“Dobbiamo imparare a non considerare il rifiuto un problema bensì una risorsa perché dal rifiuto noi possiamo recuperare materia prima da rimettere nel ciclo produttivo, rifare nuovi prodotti ed è lì che si capisce veramente come mai l’economia è circolare.” – Simona Bonafè, Europarlamente PD e Relatrice Pacchetto Economia Circolare.
Bisognerebbe mettersi d’accordo sul significato delle parole, perché poi la chiave è tutta lì. Delle mosche che mangiando dei rifiuti producono dei concimi naturali non possono portare vantaggio alle aziende perché la legge vieta di allevare animali sui rifiuti. La legge considera le mosche, che di loro in natura vanno a cercare dei rifiuti, alla stregua di cani e gatti. Bisognerebbe avere un po’ di buon senso, anche perché quando per decreto è stato stabilito che gli scarti alimentari potevano essere considerati un sottoprodotto, ecco che, ad esempio, sono stati utilizzati gli scarti degli agrumi per fare dei tessuti. La tecnologia c’è, e le idee ai nostri imprenditori non mancano, ma perché devono lottare con la macchina della burocrazia per ottenere delle semplici certificazioni?
Fonte: Alessandra Borella e Sigrido Ranucci – Rai 3 Report puntata del 4 giugno 2018
Nunzia Vallozzi
Ufficio Stampa Web – ESO